L’orto

L’orto

“L’oltu”

Per lungo tempo è stato il luogo dove spesso sognavo di trovarmi, e di tanto in tanto, mi succede ancora.

Non ho vissuto per molto tempo a Tempio, solo qualche anno della mia infanzia e per brevi periodi durante le vacanze scolastiche, ma il ricordo di quegli anni e di quei luoghi, è così profondamente impresso nella mia mente, da essere dopo il ricordo dei miei cari, l’oggetto dei miei ricordi più ricorrente.

Mio padrino e fratello di mia madre, lavorava questa terra a mezzadria, ma decideva lui ogni cosa, quali alberi piantare, quali potare o abbattere. Dal cancello (jaca)[1], fino al suo limite, lo strapiombo dal quale si vedeva passare il trenino , che da lassù pareva un bruco nero, quello era il suo regno, e così fu per oltre cinquant’anni. Lo vedo ancora  lavorare quei fazzoletti di terra che parevano disegnati con riga e compasso. Sento ancora nelle orecchie il gorgoglio dell’acqua, regolata da una mano sapiente, che si insinua leggera in un solco fra due ali di terra bruna e soffice, attenta a non disfare quel grembo accogliente. Questi solchi erano fatti ad arte, fra due file di piantine, in modo che l’acqua che vi scorreva, bagnasse il lato sinistro e il lato destro di due file. La comunicazione fra i solchi veniva fatta con un leggero ma preciso colpo di zappa, che spostava la zolla quando il primo solco era pieno, e l’acqua defluiva nel secondo solco, pieno anche il secondo, un altro colpo di zappa chiudeva il passaggio e l’acqua passava nel terzo solco, fino a che tutti i solchi erano colmi d’acqua, che piano veniva assorbita dalla terra.

Le corse coi miei cugini per arrivare primi all’albero preferito, o per arrivare primi a bere l’acqua di Rinagghiu dalla “nappeddha”[2], o salire sulla roccia più alta, erano cose giornaliere, e io ero quasi sempre l’ultima. Non che potessi salire su tutti gli alberi, dovevo scegliere quelli che avevano una biforcazione tanto bassa da facilitare la mia scalata, ciliegio, fico, o gelso che fosse. Fra i cugini Spartaco, sempre più veloce e vorace degli altri, ripulito un albero, scendeva di corsa, risaliva su un altro, sempre correndo, e continuava il suo banchetto.

Una volta però, scendendo da un fico, mise il piede su una buccia da lui gettata su un ramo, e finì lungo disteso per terra fra le risate e i commenti degli altri.

Una cosa strana mi destava meraviglia, i miei cugini, andassi al mattino o andassi alla sera, li trovavo sempre li, mi veniva il dubbio che vi dormissero.

In autunno vi crescevano funghi grandi come ombrellini, o così a me parevano, piccina di otto anni. D’inverno c’era un freddo cane e ci andavo volentieri solo per cogliere le castagne “illa custaglia”[3] anche se rientravo a casa con le mani piene di spine.

La primavera era la nostra stagione preferita, perché avevano inizio le nostre scorribande. Erano gare giornaliere per raccogliere “li ziri”[4], che svettavano alti sulla piantina del “papanzolu”[5] di un buon palmo, li coglievamo veloci avanzando lungo la siepe, tenendoli nella mano sinistra e ben presto il pollice e l’indice non arrivavano a toccarsi. Durante la raccolta ne mangiavamo pochi affinchè il mazzo fosse più grosso di quello degli altri. ”Li ziri”, sono gli scapi fiorali di una asteracea, somigliano agli asparagi ma hanno lo stelo liscio. Un giorno, durante un’escursione in solitario, trovai in mezzo ad una spessa siepe, (sebbi) una grande mela, tutta striata di giallo e rosa, dal picciolo verso il basso. Era caduta da un albero che stava al di là della siepe. Tutta felice la portai da mio padrino che lavorava nella vigna. Fu contento del mio gesto, e chiamati a raccolta figli e nipoti, ci contò ed estratto l’immancabile coltello a serramanico che portava sempre in tasca, ne fece tanti spicchi quanti eravamo, e li distribuì. Ricordo ancora il sapore di quella mela, era tanto matura che si sciolse in bocca in una miriade di granelli zuccherini. In giugno vi fioriva un grande prato di gigli bianchi che noi coglievamo, ma poiché il profumo era tale che ci stordiva, finivamo per gettarli a terra e calpestarli.

La giornata più bella era quando a “l’oltu”, mi accompagnava mio padrino sul suo cavallo, anche se quando scendevo, ero tutta dolorante e camminavo rigida per non farmi ridere dietro dai cugini.

Il giorno che mia nonna decideva di fare il bucato, era un’occasione speciale per trascorrere a “l’oltu”[6] buona parte della giornata, dalla mattina fino al pomeriggio inoltrato, quando la biancheria, pulita e asciutta, veniva riposta ben piegata nei cesti, che venivano portati sul capo.

C’era un grande vasca in cemento, rettangolare, sempre piena dell’acqua di Rinagghiu. Alla base del lato rivolto verso l’orto, c’era un buco con un grosso tappo di sughero, che veniva tolto per innaffiare le verdure, o per cambiare l’acqua del bucato. L’acqua in entrata scorreva sempre, e spesso traboccava dal vascone. Nonna Serena con le mie zie, si davano da fare per riuscire a stendere al più presto il bucato. Lavati e risciacquati varie volte, i panni venivano stesi sulle siepi, che erano intessute di edera e di pervinca. Mia nonna, mentre stendeva i panni, recitava una cantilena per propiziarsi non ricordo più se il vento o il sole, affinchè facilitasse una sommaria asciugatura dei panni, “ ingaspà”[7].

Nonna Serena portava il pranzo pronto, e si mangiava su un tavolo di granito, seduti sulle panche laterali, anch’esse in granito, all’ombra di due enormi ippocastani. Quando gli ippocastani erano in fiore non mangiavamo mai li, perché cadevano i petali decomposti sul cibo. A ricordare provo gli stessi sentimenti d’allora, quando all’imbrunire, stanchi di una giornata di giochi, rientravamo, noi bambini carichi di ortaggi e frutta che i grandi avevano colto mentre si asciugavano i panni, e le donne coi cesti della biancheria. I grandi camminavano avanti e noi, dietro, ognuno col suo carico di fagioli, melanzane, basilico, peperoni, fichi, ciliegie, lattughe, piselli, fave, secondo la stagione.

Erano rientri silenziosi, soffusi di una dolce melanconia, per la fine della giornata, per la stanchezza, e per la fame che dopo tanto correre, si faceva sentire. Il profumo delle verdure che portavamo, solleticavano il nostro appetito, e già pregustavamo il sapore delle melanzane subito lavate, affettate e fritte, dopo le patate e le zucchine, ultimi si friggevano i peperoni. E mai verdura è stata più gustosa.

Parrà strano, ma se chiudo gli occhi e penso a quei giorni, il gorgoglio dell’acqua di Rinaggiu, il profumo del basilico, e il sapore delle verdure appena cotte, sono attorno a me, ancora vive, come se tutto ciò fosse accaduto oggi.

 Grazia Secci

 

[1]Piccolo cancello, di legno o di tronchi d’albero

[2] Gibbosità della corteccia del sughero che viene tagliata come una ciotola, si pone dove sgorga l’acqua e ognuno può usarla per bere.

[3] Striscia di terreno con soli  castagni, dove non penetra mai il sole.

[4] Sono gli scapi fiorali dell’Hyoseris radiata.

[5] Hyoseris radiata, o radicchio selvatico.

[6] In Gallura, anche un grande appezzamento di terreno, viene chiamato così.

[7] Asciugare sommariamente.

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