L’ultimo pescatore

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L’ultimo pescatore

Passando nelle giornate di nebbia lungo l’argine del Rio Cixerri, quando le sue acque scendono tumultuose a valle…

Passava spesso davanti casa mia, una figura alta e dinoccolata, la schiena un po’ curva sotto il peso dello zaino, le braccia protese sul manubrio e le lunghe gambe impegnate in lunghe e regolari pedalate, era l’ultimo pescatore di Siliqua.
Stivali ai piedi e buona parte del corpo protetto da una mantella per la pioggia, aveva sempre un’aria assorta.
Aveva iniziato a seguire il padre giù al fiume che aveva 14 o 15 anni.
Parla del Cixerri quando le sue acque erano limpide e si poteva bere mettendo le mani a coppa portandole colme alla bocca, di quando le sue acque nei momenti di piena brulicavano di pesci. Ma anche allora la vita del pescatore non era facile, «Spesso, dovevo tuffarmi e andare a stanare i pesci dalle loro tane, prenderli con le mani e mentre mio padre sollevava “s’obiga” (era uno strumento fatto a mezzaluna, come un arco di legno provvisto di una rete), gettarli dentro. Erano tinche, trote, anguille. In questo modo si poteva prendere anche 20-25 kg. di pesce che vendevamo. Con questo strumento “s’obiga”, mio padre si piazzava in una zona e stava fermo, io battevo una zona a monte di 10-12 m. e i pesci finivano nella rete.»
Mi elenca i nomi dei diversi strumenti di pesca che usavano di volta in volta, ognuno secondo la stagione e il tipo di pesca. Ricorda ancora la ditta di Brescia dalla quale il padre faceva arrivare il tramaglio, “sa rezza “, Ditta Archetti Stefano. Era una rete lunga 20-25 m. di nylon.
“Su nassarxiu”, si ottiene chiudendo un tratto di fiume con paletti di legno o di ferro, si chiude tutto con le frasche, e si mette la rete nella bocca dove c’è il passaggio per i pesci.
“Su fibau”, rete fatta di spago, si usava per lo più in autunno, quando c’erano le piogge e il fiume era in piena. In 24 ore si riusciva a prendere anche 100 kg. d’anguille.
A questo punto parlando d’anguille sorge una contestazione sul fatto che le anguille vadano tutte nel mar dei Sargassi per deporre le uova, e poi morire. Lui afferma che le anguille del fiume non vanno d’accordo con l’acqua salata. Afferma ancora che le anguille iniziano e compiono la loro vita nelle acque del fiume, e non accetta altre tesi.
Nella pesca non ci sono orari, bisogna essere pronti quando è il momento buono. Per le anguille invece è opportuno pescarle di notte. In certi periodi di poca pesca, si praticava una cosa proibita, “alluai” da lua, Euforbia. Quando c’era la miseria e il bisogno, si passava sopra a tante cose. Questa pratica si eseguiva buttando nell’acqua: “lua”, Euforbia; “arrex’e lau” , è la radice di una crucifera; “truiscu”, Dafne gnidium; “scruidda”, Urginea maritima. Afferma di non aver mai utilizzato le ultime due che sono altamente tossiche anche per l’uomo.
Nel periodo fascista è stato introdotto nel fiume un pesciolino che distrugge le larve delle zanzare, si chiama Camusa, e oltre alle zanzare ha distrutto gli avannotti d’altri pesci. Anche il pesce gatto ha distrutto la pesca, mangiando gli avannotti. «Quando io ero ragazzo, nel Cixerri erano abbondanti i gamberetti, “mangaredda”, bastava entrare in acqua con un cestino per prenderne parecchi, non si mangiavano e non si vendevano, noi li usavamo come esca.»
La cosa più brutta nella pesca era il freddo che si doveva patire nell’attesa che arrivasse la piena, “su truu”. Era l’occasione più favorevole per la pesca quando, dopo aver piovuto, veniva giù la piena, “su truu”, che assieme ai detriti e sterpaglie d’ogni tipo, portava numerosissimi i pesci. In questa occasione si preparavano due “fibau”, e quando arrivava la piena si doveva essere vigili e svelti, vuotare il primo e mettere il secondo. Ricorda, assumendo nel volto e nella voce un filo di nostalgia, i nomi dei siti più importanti dove si svolgeva la pesca, e dove si è svolta buona parte della sua vita. Questi siti sono le grandi pozze, “garoppus” dove si concentravano i pesci. Iniziando da ovest, “Bau figu”, “Perda piscina”, “Su campu mannu”, “Bau sonau”, saltando il tratto di fiume che attraversa l’abitato, frequentato dalle donne per lavare i panni, “Bau forru”, “S’ott’e Niccolinu”, “ Sa zriv’e Bau forru”, “Perdu pisu”, “Cicciu Manca”, “Su quaddu moriscu”. Qui interrompe la lista per raccontarmi un episodio. Aveva quattro anni e si trovava al fiume con la madre e la sorellina di due anni. Aveva preso due ranette verdi e tornati a casa, mentre la mamma aveva messo nel camino una pentola con dei fagioli, lui mise le due ranette ad arrostire sulla brace. Una volta cotte, ne diede una alla sorellina e una la mangiò lui. Naturalmente quando la mamma si accorse del fatto, lui le buscò, ma si divertiva tanto a raccontarmi la cosa che forse non doveva aver sofferto molto.
Passando nelle giornate di nebbia lungo l’argine del Cixerri, quando le sue acque scendono tumultuose a valle, fra le forme indistinte che lo popolano, pare di vedere “il pescatore”, con la mantella e gli stivali, che traffica con le sue reti!

Grazia Secci

 

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